La felicità come vitale realizzazione di sé

La felicità come vitale realizzazione di sé

Oggi parliamo di Felicità

La parola felicità è stata molto abusata e lo è soprattutto oggi che la si vuole trovare a buon mercato. La formula  americana di felicità come Happiness, frutto di un certo “pensiero positivo” su cui si è prodotto molto business, nasce da una operazione di marketing  e quindi segue le leggi del mercato.

Più seriamente si pone quel movimento di pensiero economico, che seguendo le indicazioni di alcune Costituzioni, a partire dal preambolo della Costituzione francese de 1791, invece di perseguire il PIL (prodotto interno lordo)  cerca di realizzare il FIL (Felicità Interna Lorda), cioè mette la felicità tra i parametri della produttività di un paese, che qualcuno chiama anche BIL (benessere interno lordo). 

In questo contesto vorrei  parlare di FIL, nel senso della “felicità interiore lorda”, che il Counseling e il Counseling filosofico può assicurare.  

Molte sono e sono state le definizioni della felicità, anche agli antipodi, che si sono susseguite nel corso della storia della filosofia: si pensi allo Stoicismo e all’Epicureismo che rappresentano due modelli opposti per perseguire la felicità. Per quanto mi riguarda fare  del “vivere” una esistenza sensata è  l’essenza della felicità.

Questo è molto vicino al significato che i Greci, ma soprattutto la più grande etica dell’antichità, ossia l’Etica nicomachea, ha dato alla parola felicità o eudaimonia. L’etimologia dalla parola eudaimonia deriva dal greco eu ‘buono’ e daimon ‘demone’. E’ felice chi possiede un buon demone ossia una buona inclinazione nel perseguire il suo perfezionamento. L’eudaimonia non è la semplice felicità. È la felicità intesa come scopo della vita, e come  ispirazione  secondo cui  orientare la propria condotta, perciò diventa fondamento dell’Etica. 

In una interessante intervista  Luce Irigaray, che è la fondatrice del pensiero della Differenza (le filosofe contemporanee  più che dei filosofi si sono interessate di felicità e di benessere), afferma: «La felicità è molto presente nel mio lavoro. Ma giungere alla felicità non è facile. Non parlo di acquisto di oggetti e consumo. Ma alla gioia di divenire se stessi, lo sbocciare della persona.  Questa felicità corrisponde ad un dovere personale, ma anche a un dovere politico di occuparsi dell’”essere” delle persone».

La frase potrebbe costituire un Manifesto sulla felicità, perché esprime una concezione della felicità come ben-essere che non si esaurisce nell’essere, ma mette insieme essere e divenire.

Il compito del counseling filosofico è proprio quello di combattere il mal-essere a favore del ben-essere,  cosa che implica la realizzazione di una dimensione felice. Parlo di “dimensione”, quindi di un qualcosa che si protragga nel tempo, che non si esaurisca in un istante sia pure felice, di un raggiungimento di uno stato mentale emozionale e corporeo del proprio Sé, che consenta ad ogni individuo di realizzarsi pienamente e d’interagire positivamente anche contro gli imprevisti, i  colpi del destino, le conseguenze delle proprie scelte che l’esperienza di una vita pienamente vissuta  gli riserva. Per Irigaray la felicità non è il soddisfacimento del piacere, ma la ricerca del Sé e della pienezza di Sé. Questa ricerca si attua nel presente ma anche nel trascendere  i limiti del nostro  io, per accedere  alla dimensione più profonda del  Sé.  

La felicità ha a che fare con l’essere ma l’essere non è un essere statico perché s’identifica in parte con il movimento del desiderio come realizzazione del proprio demone, buon (eu) demone(daimon).

Fin quando siamo sul campo delle definizioni tutto torna, ma è sul piano delle nostre emozioni e dei nostri  reali comportamenti quotidiani che nasce il problema.

Avete mai avvertito mentre vi sentivate al colmo della felicità una sensazione negativa, un tremore dell’anima molto somigliante alla paura?

Ho infatti costatato, non solo personalmente, ma nel dialogo con persone che si sono affidate a me per loro problematiche, che mentre lo scopo di essere felici è prioritario su qualsiasi altro scopo, quando arriva il momento di essere felici  non si riesce a viverlo pienamente. C’è una vera incapacità a vivere la felicità. Pensiamo subito che chissà quanti altri disagi dobbiamo pagare per compensare questi attimi felici. 

Dove nasce la paura di essere felici? Nasce secondo me ,come molti altri nostri problemi, dalla cultura che ci viene inculcata fin dalla nascita, che determina la nostra scala valoriale e di giudizio, e permea la nostra sfera emotiva e comportamentale. La cultura del ‘900 che si protrae fino ai nostri  giorni è intrisa di pessimismo e nichilismo, dovuto agli eventi catastrofici che l’ hanno segnata, ma anche a teorie filosofiche psicologiche e, perché  no, psicoanalitiche “pessimiste”. Freud è stato un grande perché ha scoperto l’inconscio, ma questo inconscio è pieno di demoni negativi, la sua visione della società è negativa. Lo dice il titolo stesso della sua maggior opera Il disagio della civiltà, un disagio che nessuna pratica  psicoanalitica può dissolvere, perché può solo farci scegliere se dobbiamo adeguarci, arrenderci alle dinamiche della società o vogliamo starcene fuori, pagandone però il prezzo con la Follia. Ma è soprattutto la  definizione che Freud dà di felicità come pausa dal dolore, che è penetrata  nella cultura in generale, che ci fa vivere male gli attimi di felicità, dal momento che questa è intimamente connessa al dolore, essendo per definizione, solo una sua pausa.

La paura di essere felici è di ostacolo ad ogni percorso di consapevolezza, e rimuovere questa paura è il primo lavoro che un Counselor deve proporsi. E ne ha tutte le capacità per farlo, perché il counseling è lo strumento più efficace per attivare nel “cliente” le sue risorse positive.

Carl Rogers, infatti,  il padre  del counseling, sosteneva a differenza di Freud che le persone non sono in preda ad istinti irrazionali  e inconciliabili (Eros e Thanatos) ma  hanno in sé le  risorse per  autodeterminare il proprio comportamento e per migliorarlo. Tale processo è stato definito da Rogers come tendenza attualizzante  seguendo la quale le persone sane sono aperte mentalmente verso nuove esperienze, vivono liberamente ogni momento e sono in grado di perseguire i propri desideri e finalità.

Rogers dando  questa visione di fondo ha anticipato il counseling. Il counseling, infatti, è una pratica per persone sane, che hanno perso momentaneamente il proprio orientamento, senso della vita e consapevolezza di sé,  e che ricorrono ad un counselor per riacquistarle.

L’individuo possiede in se stesso le potenzialità necessarie per cambiare e per questo è il principale attore del suo percorso. Per queste ragioni, il trattamento rogersiano si definisce “centrato sul cliente” o meglio “sulla persona”.

Il counseling filosofico di Metis  è molto affine a quello rogersiano perché usa il Dialogo socratico  come “leva” per  recuperare  energie positive interiori. Con la sua Maieutica  il dialogo socratico agisce come una levatrice (ricordate che la madre di Socrate era una levatrice?),  aiuta le persone a “partorire”, a trarre fuori  dal profondo se’ le risorse  per attuare quel cambiamento che le porterà a superar gli ostacoli che interferiscono con il perfezionamento e la realizzazione di sé.

 

Io non ho denominato il Corso di Metis che proponiamo come corso di pratiche filosofiche, perché sono le tecniche del counseling più che generici esercizi filosofici, a darci la possibilità di far leva sulle energie positive del cliente, secondo quanto ci ha insegnato Rogers.

Giovanna Borrello

Già docente di Filosofia e Bioetica (Uni. Federico II-Napoli). Fondatrice della scuola di Counseling  filosofico Metis